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Quando: Venerdì 16 maggio 2025, dalle 11 alle 12
Dove: Sotto il Volto del Cavallo - Municipio

    Autore: Rodolfo Baraldini

    Flash Mob – Raccolta firme

    LIBERIAMO FERRARA DA HERA
    PER LA RIPUBBLICIZZAZIONE DEL SERVIZIO DEI RIFIUTI

    Continuano i flash mob, tutti i venerdì dalle 11 alle 12, sotto il Municipio,
    davanti al Volto del Cavallo Siete tutti invitati a partecipare
    Per chiedere che l’Amministrazione Comunale proceda alla promozione di
    diversi momenti di confronto con la cittadinanza per discutere la situazione
    attuale e quella futura del servizio di gestione dei rifiuti urbani
    Per realizzare la ripubblicizzazione del servizio dei rifiuti urbani, passare alla
    modalità di raccolta porta a porta, dimezzare l’incenerimento

    Non si può chiudere Cittadini del Mondo

    Intervento del Forum Ferrara Partecipata presente all’assemblea del 7 maggio per esprimere la propria vicinanza e solidarietà

    Non ci si stava l’altro ieri in via Kennedy 24, nella sede di Cittadini del mondo. Neppure il gazebo esterno era sufficiente a contenere tutte le persone che si riparavano dalla pioggia. Singoli cittadini e rappresentanti di associazioni o partiti politici si son dati appuntamento per un’assemblea pubblica in difesa di quello spazio.

    Anche il Forum Ferrara Partecipata era presente e ha espresso solidarietà nei confronti di un luogo che da tanti anni è un agente di accoglienza, di difesa e promozione di diritti. Il Forum persegue, nei suoi fondamenti, un’idea di città aperta che sa ascoltare i bisogni delle persone, propone una discussione partecipata e prospetta ipotesi di intervento sociale. Cittadini del mondo si è sempre posta in questo solco.

    Siamo convinti che gli spazi divengano luoghi allorché vengono abitati da esistenze che intrattengono tra loro un sentire collettivo. La chiusura o lo spostamento di questi luoghi fuori dall’area cittadina, proposte da questa Amministrazione secondo un disegno ormai trasparente, sortiscono grande preoccupazione. È in atto un tentativo di ‘ripulire’ la città dalle realtà (La Resistenza, CSV, Circolo Bolognesi) che fanno crescere e attivano energie in grado di definire narrazioni ‘altre’ riconoscendo nuove soggettività come possibili e valide.

    Il successo di eventi, come quello di ieri sera, mostra quanto sia importante, in questa fase storica, tessere alleanze tra chi si riconosce in questi valori a fronte di una politica che tende a separare e a decostruire rapporti associativi e politici non-conformi. In questo clima di paura, di esclusione e di conformismo è necessario alimentare sempre di più ‘fuochi di partecipazione’ mostrando la violenza insita in molti comportamenti, la disuguaglianza che passa per normalità prospettando la possibilità di innescare alternative.

    Forum Ferrara Partecipata non solo si rende disponibile, ma sostiene la necessità di promuovere una forte mobilitazione a difesa dello spazio di Cittadini del Mondo e di tutte le realtà minacciate nella loro possibilità di continuare il proprio ruolo di aggregazione sociale. Serve mettere in campo un’iniziativa forte che riaffermi il ruolo fondamentale degli spazi sociali e dei servizi pubblici, contrastando l’idea di chi pensa che sia solo il mercato a intervenire in questi ambiti.

    Cittadini del mondo, il Forum Ferrara Partecipata “in difesa di quello spazio”

    La realtà sociale ha espresso “solidarietà nei confronti di un luogo di accoglienza”
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    on ci si stava l’altro ieri in via Kennedy 24, nella sede di Cittadini del mondo. Neppure il gazebo esterno era sufficiente a contenere tutte le persone che si riparavano dalla pioggia. Singoli cittadini e rappresentanti di associazioni o partiti politici si son dati appuntamento per un’assemblea pubblica in difesa di quello spazio”. Anche il Forum Ferrara Partecipata era presente, esprimendo “solidarietà nei confronti di un luogo che da tanti anni è un agente di accoglienza, di difesa e promozione di diritti”.

    Il Forum ha evidenziato che “persegue, nei suoi fondamenti, un’idea di città aperta che sa ascoltare i bisogni delle persone, propone una discussione partecipata e prospetta ipotesi di intervento sociale. Cittadini del mondo si è sempre posta in questo solco. Siamo convinti che gli spazi divengano luoghi allorché vengono abitati da esistenze che intrattengono tra loro un sentire collettivo. La chiusura o lo spostamento di questi luoghi fuori dall’area cittadina, proposte da questa Amministrazione secondo un disegno ormai trasparente, sortiscono grande preoccupazione”.

    Una nota della realtà sociale ha aggiunto che “è in atto un tentativo di ‘ripulire’ la città dalle realtà (La Resistenza, Csv, Circolo Bolognesi) che fanno crescere e attivano energie in grado di definire narrazioni ‘altre’ riconoscendo nuove soggettività come possibili e valide. Il successo di eventi, come quello di ieri sera, mostra quanto sia importante, in questa fase storica, tessere alleanze tra chi si riconosce in questi valori a fronte di una politica che tende a separare e a decostruire rapporti associativi e politici non-conformi”.

    Una situazione, a detta del Forum caratterizzata da un “clima di paura, di esclusione e di conformismo”, e in relazione alla quale “Forum Ferrara Partecipata non solo si rende disponibile, ma sostiene la necessità di promuovere una forte mobilitazione a difesa dello spazio di Cittadini del mondo e di tutte le realtà minacciate nella loro possibilità di continuare il proprio ruolo di aggregazione sociale”. Secondo il Forum Ferrara Partecipata “serve mettere in campo un’iniziativa forte che riaffermi il ruolo fondamentale degli spazi sociali e dei servizi pubblici, contrastando l’idea di chi pensa che sia solo il mercato a intervenire in questi ambiti”.

    Bici e sicurezza. Una ‘ghost bike’ in via Pomposa

    Il ricordo di un ciclista morto in un incidente. Ferrara Partecipata: “Investire sulle infrastrutture”.

    Una mattinata di commozione e ricordo ha percorso ieri le strade di Ferrara nell’area di via Pomposa. Una trentina di ciclisti, molti con gilet gialli e cartelli con slogan per la sicurezza stradale e la mobilità sostenibile, si sono uniti in una pedalata silenziosa per onorare la memoria del ciclista tragicamente scomparso lo scorso ottobre investito da un’auto davanti alla Litografia Tosi. Il corteo si è fermato sul luogo esatto dell’incidente, dove i partecipanti hanno deposto una ‘ghost bike’. Queste biciclette bianche, silenziose testimoni di vite spezzate sulla strada, sono un simbolo potente della vulnerabilità dei ciclisti e un monito per una maggiore sicurezza stradale. La biciclettata, carica di significato, non si è conclusa con la deposizione della ghost bike. Il corteo di ciclisti ha poi proseguito il suo percorso, dirigendosi verso un altro punto cruciale per la sicurezza dei ciclisti ferraresi: il ponte che attraversa il diversivo del Volano.

    Proprio in prossimità di questo attraversamento, da tempo immemore, la comunità ciclistica locale, supportata da centinaia di firme raccolte attraverso diverse petizioni, sollecita la realizzazione di un ponticello ciclabile analogo a quello esistente. La presenza del corteo di ciclisti, con la sua silenziosa ma eloquente richiesta di maggiore sicurezza, ha reso ancora più tangibile l’urgenza di intervenire. La speranza – afferma il Forum Ferrara Partecipata – è che questa pedalata commemorativa possa riaccendere i riflettori sulla necessità di investire in infrastrutture ciclabili sicure”.

    Assemblea Forum Ferrara Partecipata

    L’assemblea ha lo scopo di fare il punto sia delle iniziative che abbiamo in corso come Forum ( campagna per la ripubblicizzazione del servizio rifiuti, petizione e impegno sul tema della mobilità, iniziativa sul tema del verde e della città parco, lavoro del gruppo Ferrara, le donne e la città, ripresa dei ragionamenti sulla democrazia partecipativa) sia su altri percorsi in cui siamo coinvolti ( referendum sul lavoro e la cittadinanza, difesa degli spazi sociali in città).

    “Rifiutiamoci!”. Il flash mob contro il monopolio di Hera

    Ferrara Partecipata e Rete Giustizia Climatica tornano in piazza per la ripubblicizzazione del servizio rifiuti urbani: “Basta con la sudditanza a Hera”

    Sotto il Volto del Cavallo, nel cuore della città, Forum Ferrara Partecipata e Rete Giustizia Climatica hanno organizzato, venerdì 11 aprile, un flash mob per chiedere con forza la ripubblicizzazione del servizio di gestione dei rifiuti urbani. Una manifestazione colorata ma determinata nel riaffermare lo stop al monopolio di Hera.

    Rispetto all’accordo firmato recentemente con la multiutility, Corrado Oddi, portavoce del Forum, ha lanciato un appello diretto al vicesindaco Alessandro Balboni: “Promuova un’assemblea pubblica, aperta alla cittadinanza. Non si possono prendere decisioni di questo peso senza un confronto vero con le persone. Lo abbiamo invitato a un convegno, ma non si è presentato. Una risposta burocratica non basta. Serve un confronto democratico su scelte che segneranno i prossimi vent’anni della città”.

    La contestazione si inserisce nel quadro del rinnovo della concessione per la gestione dei rifiuti, che Hera continua a gestire in proroga dal 2017. Dopo sette anni di proroghe, l’Amministrazione sembra voler procedere con una gara d’appalto che – secondo gli attivisti – rischia di riconfermare Hera, “perpetuando un modello giudicato insostenibile e sbilanciato”. “È una scelta sbagliata – denunciano – figlia della subalternità della politica locale agli interessi di una multiutility che punta ai profitti, non al bene comune”.

    Il tema, oltre che ambientale, è profondamente politico. Le reti civiche propongono un’alternativa concreta: creare un’azienda pubblica comunale, sul modello di Alea di Forlì, che coinvolga cittadini e lavoratori nelle decisioni strategiche e punti alla riduzione dei rifiuti e al riciclo, non all’incenerimento. Alea, difatti, ha ottenuto risultati eccezionali – come riferiscono gli attivisti – diventando una delle realtà più virtuose in Emilia-Romagna.

    A Ferrara, invece, nonostante i proclami sull’alta percentuale di raccolta differenziata, i numeri raccontano una realtà meno brillante. “Produciamo troppo rifiuti, e troppi scarti finiscono comunque all’inceneritore”, spiegano gli organizzatori. Il sistema delle calotte viene criticato poiché incentiverebbe comportamenti scorretti come l’abbandono dei rifiuti e rappresenterebbe uno spreco di risorse. Il porta a porta, dicono, è la strada giusta: “Più qualità, meno impatti ambientali”.

    Attenzione anche al futuro dell’inceneritore. La prosecuzione dell’accordo con Hera significherebbe, secondo Oddi, legittimare il suo utilizzo per altri decenni: “È grave e sbagliato – ha detto –. Accettare compensazioni è come accettare l’incenerimento come soluzione strutturale. Ma si può dimezzare, se si cambia il paradigma”. A dimostrazione che si può fare cita il caso Forlì, dove la creazione di un’azienda pubblica non solo ha mantenuto i livelli occupazionali ma ha prodotto benefici ambientali tangibili.

    “Ci viene detto che è troppo costoso – ribattono – ma si tratta di investimenti per il futuro, non di spese. Le risorse ci sono, basta volerle utilizzare in modo diverso. Basterebbe utilizzare gli utili di Ferrara Tua o vendere una parte delle azioni di Hera possedute dal Comune”. Per i manifestanti, quindi, non è una questione tecnica ma di volontà politica. E il messaggio lanciato è chiaro: “Basta con la sudditanza a Hera, Ferrara si riprenda la gestione dei suoi rifiuti”.

    La Comune: “Ripubblicizzare la gestione dei rifiuti”

    Intervento della lista dopo l’incontro organizzato da Rete Giustizia Climatica Ferrara e Forum Ferrara Partecipata giovedì

    Un sentito ringraziamento a Rete Giustizia Climatica Ferrara e Forum Ferrara Partecipata per aver organizzato ieri un importante convegno sul tema della gestione dei rifiuti urbani.

    Il settore dei rifiuti è uno dei tre principali settori che emettono metano, dopo l’agricoltura e il settore petrolifero e del gas ed è responsabile di circa il 20% delle emissioni di metano causate dall’uomo a livello globale.

    Ridurre rapidamente e in modo significativo l’inquinamento da metano è una delle opportunità più importanti che abbiamo per rallentare il ritmo del riscaldamento globale nei prossimi due decenni.

    Il primo passo per ridurre al minimo la produzione di rifiuti è evitare che i rifiuti si generino e dunque minimizzare l’utilizzo di prodotti monouso o di breve durata e orientare le politiche e le pratiche ai principi individuati anche dalla stessa Unione Europea e dalla normativa italiana, quelli delle famose 4R – riduzione, riuso, riciclaggio e recupero.

    Crediamo che una gestione pubblica, avendo come scopo primario il perseguimento dell’interesse collettivo, sia naturalmente portata per orientarsi verso politiche ambientali efficaci e orientate al lungo termine, mentre una gestione privata, pur nel rispetto delle normative, è intrinsecamente orientata alla generazione di profitto, una logica che non sempre coincide con gli obiettivi di massima tutela ambientale.

    Certo, il passaggio a una gestione pubblica richiede un’attenta pianificazione e dialogo con tutti i portatori di interesse, in primis i cittadini e un impegno concreto da parte dell’amministrazione, ma l’esperienza di Alea nel forlivese dimostra che la ripubblicizzazione del servizio può essere una maniera efficace per raggiungere questi obiettivi ambiziosi quanto cruciali.

    I 13 Comuni che hanno fatto nascere Alea (subentrata ad Hera) non hanno messo 1 euro dal bilancio comunale, utilizzando un prestito dalle banche e mettendo come garanzia le azioni di Hera di loro proprietà. Da quando è subentrata la gestione pubblica partecipata, i costi per i cittadini sono progressivamente calati, così come è andato aumentando il decoro della città.

    Un sistema responsabilizzante e partecipativo, un’attenta organizzazione hanno portato ad un efficace e soddisfacente modalità di raccolta porta a porta, con la tariffazione puntuale, un aumento della qualità del rifiuto differenziato e una diminuzione dell’indifferenziato.

    I fondi del Pnrr sono stati abilmente utilizzati per l’apertura di 11 eco centri per permettere ai cittadini di conferire in maniera aggiuntiva rispetto al calendario e una Control room permetterà a breve di migliorare il monitoraggio e il controllo, individuando in tempo reale le zone in cui si verificano abbandoni o anomalie.

    Si può fare, è solo questione di visione e volontà politica!

    Ferrara Partecipata: “Accordo Hera-Comune sbagliato e controproducente”

    Il Forum: “Si legittima il fatto che dovremo tenerci l’inceneritore con l’attuale capacità produttiva perlomeno fino al 2029”

    Il Forum Ferrara Partecipata dice “no” all’accordo tra Hera e Comune di Ferrara che stabilisce un indennizzo di 2,6 milioni di euro per il quadrienni 2021-2025 e altri 600mila annui fino al 2029 con la possibilità in seguito di riconfermare gli oneri. L’accordo prevede il riconoscimento di 9 euro per ogni tonnellata di rifiuti speciali non pericolosi inceneriti nell’impianto di via Cesare Diana.

    “Riteniamo tale scelta – fa sapere il Forum – sbagliata e controproducente”. In primo luogo ritengono “quest’accordo l’amministrazione comunale smentisce se stessa”. “Nel 2021 – dicono -, quando si decise di aumentare la capacità produttiva dell’inceneritore da 130.000 a 142.000 tonn/anno, il Comune di Ferrara si dichiarò contrario. Annunciò di adire le vie legali con un ricorso al Tar, ricorso di cui si sono perse le tracce e della cui fine l’amministrazione comunale dovrebbe rendere conto alla cittadinanza”.

    “Soprattutto, però – aggiungono -, con quest’accordo, si legittima il fatto che dovremo tenerci l’inceneritore con l’attuale capacità produttiva perlomeno fino al 2029, con la quasi certezza di proseguire anche successivamente. Si decide così di monetizzare la salute dei cittadini: per un po’ di soldi in più, si continua ad alimentare l’inceneritore che, notoriamente, procura problemi seri dovuti all’emissione di sostanze inquinanti nell’ambiente. L’Amministrazione comunale di Ferrara sposa una linea assolutamente contraria agli interessi dei cittadini, passando da un finto contrasto dell’aumento dell’incenerimento ad una sua piena accettazione”.

    L’aumento della capacità del termovalorizzatore da 130mila tonnellate alle 142mila attuali fu approvato dalla Conferenza dei Servizi (di cui fanno parte Comune, Ausl, Arpae e Prefettura) nel 2021 dopo che nel 2020 il Comune di Ferrara si era opposto all’incremento di 12mila tonnellate richiesto da Hera.

    Secondo Ferrara Partecipata la gravità maggiore risiede nella possibilità di “imboccare una strada diversa e alternativa”. Sostengono infatti che “nel 2023 – ultimo anno in cui sono disponibili i dati – l’inceneritore di Ferrara ha bruciato più rifiuti speciali non pericolosi che rifiuti urbani; circa 85.000 tonn. i primi e circa 61.000 i secondi, con una tendenza che, nel corso degli anni, ha sempre visto crescere il trattamento dei rifiuti speciali rispetto a quelli urbani”.

    Secondo il Forum “su questa base sarebbe possibile iniziare un percorso per dimezzare l’inceneritore, passando dalle attuali 2 linee ad una sola”.

    Rilanciano quindi la proposta di “ripubblicizzare il servizio dei rifiuti urbani a Ferrara” per evitare “che Hera gestisca tutto il ciclo dei rifiuti sulla base degli interessi dell’azienda, che continuerà a fare lauti profitti, e non certo di quelli dei cittadini”.

    L’idea “completamente diversa” del Forum verrà esposta durante il convegno organizzato per giovedì 27 marzo alle 17.30 al Consorzio Factory Grisù con Natale Belosi, del Comitato scientifico della Rete Rifiuti Zero Emilia-Romagna e Andrea Bertozzi, responsabile dell’area tecnica di Alea, l’azienda pubblica che gestisce il servizio dei rifiuti urbani a Forlì e in altri 12 Comuni limitrofi.

    “Inceneritore, l’accordo monetizza la salute”

    Il Forum Ferrara Partecipata boccia le compensazioni ottenute da Hera

    l Forum Ferrara Partecipata boccia l’accordo tra Comune ed Hera. E spiega le proprie perplessità: “Così si monetizza la salute dei cittadini”. Motivo del contendere, l’accordo come compensazione per il disagio ambientale derivante dall’innalzamento della capacità produttiva dell’inceneritore e della quota di rifiuti speciali non pericolosi lì bruciati. Il Forum è assolutamente contrario: “L’accordo – continuano i cittadini – prevederebbe un riconoscimento di circa 600mila euro annui, iniziando da una somma di circa 2,6 milioni per gli anni pregressi 2021-2025, per continuare negli anni a venire. Riteniamo tale scelta sbagliata e controproducente. Intanto, con quest’accordo l’Amministrazione comunale smentisce se stessa. Infatti, nel 2021, quando si decise di aumentare la capacità produttiva dell’inceneritore da 130.000 a 142.000 tonn/anno, il Comune di Ferrara si dichiarò contrario. Annunciò di adire le vie legali con un ricorso al TAR, ricorso di cui si sono perse le tracce e della cui fine l’Amministrazione comunale dovrebbe rendere conto alla cittadinanza. Soprattutto, però, con quest’accordo, si legittima il fatto che dovremo tenerci l’inceneritore con l’attuale capacità produttiva perlomeno fino al 2029, con la quasi certezza di proseguire anche successivamente. Si decide così di monetizzare la salute dei cittadini: per un po’ di soldi in più, si continua ad alimentare l’inceneritore che, notoriamente, procura problemi seri dovuti all’emissione di sostanze inquinanti nell’ambiente”.

    Accordo con Hera, Forum e Rete Giustizia Climatica: “Scelta controproducente”

    Le realtà propongono un incontro: “Si può ripubblicizzare il servizio dei rifiuti urbani”

    Il raggiungimento di un accordo fra Amministrazione comunale e Hera sulla “compensazione per il disagio ambientale derivante dall’innalzamento della capacità produttiva dell’inceneritore e della quota di rifiuti speciali non pericolosi lì bruciati” ha suscitato la reazione del Forum Ferrara Partecipata e della Rete Giustizia Climatica. Le due realtà hanno evidenziato che “l’accordo prevederebbe un riconoscimento di circa 600mila euro annui, iniziando da una somma di circa 2,6 milioni di euro per gli anni pregressi 2021-2025, per continuare negli anni a venire”.

    Una nota proveniente dalle due realtà ambientaliste ha sottolineato che “riteniamo tale scelta sbagliata e controproducente. Intanto, con quest’accordo l’Amministrazione comunale smentisce se stessa. Infatti, nel 2021, quando si decise di aumentare la capacità produttiva dell’inceneritore da 130mila a 142mila tonnellate all’anno, il Comune di Ferrara si dichiarò contrario. Annunciò di adire le vie legali con un ricorso al Tar, ricorso di cui si sono perse le tracce e della cui fine l’Amministrazione comunale dovrebbe rendere conto alla cittadinanza”.

    Da qui alla considerazione che “con quest’accordo, si legittima il fatto che dovremo tenerci l’inceneritore con l’attuale capacità produttiva perlomeno fino al 2029, con la quasi certezza di proseguire anche successivamente. Si decide così di monetizzare la salute dei cittadini: per un po’ di soldi in più, si continua ad alimentare l’inceneritore che, notoriamente, procura problemi seri dovuti all’emissione di sostanze inquinanti nell’ambiente”.

    Per Forum e Rete si “sposa una linea assolutamente contraria agli interessi dei cittadini, passando da un finto contrasto dell’aumento dell’incenerimento ad una sua piena accettazione”, aggiungendo che “invece, è possibile imboccare una strada diversa e alternativa. Infatti, nel 2023 – ultimo anno in cui sono disponibili i dati- l’inceneritore di Ferrara ha bruciato più rifiuti speciali non pericolosi che rifiuti urbani; circa 85mila tonnellate i primi e circa 61mila i secondi, con una tendenza che, nel corso degli anni, ha sempre visto crescere il trattamento dei rifiuti speciali rispetto a quelli urbani. Ebbene, su questa base sarebbe possibile iniziare un percorso per dimezzare l’inceneritore, passando dalle attuali due linee a una sola”.

    La nota ha ricordato, inoltre, che “si può ripubblicizzare il servizio dei rifiuti urbani a Ferrara”, evidenziando che “l’accordo raggiunto ieri diventa una premessa per mettere a gara anche il servizio dei rifiuti, con la pressoché  inevitabile conclusione che se lo aggiudicherà Hera”, concludendo che “noi abbiamo un’idea completamente diversa: la esporremo in modo ancora più approfondito con il convegno che abbiamo organizzato per giovedì 27 marzo alle 17.30 presso Grisù in via Poledrelli 21 con Natale Belosi, del Comitato scientifico della Rete Rifiuti Zero Emilia-Romagna e Andrea Bertozzi, responsabile dell’area tecnica di Alea”.

     

    Ferrara e la sfida rifiuti: la città può liberarsi di Hera?

    Giovedì 27 marzo l’evento pubblico a Grisù organizzato da Forum Ferrara Partecipata e da Rete Giustizia Climatica Ferrara. Invitati sindaco e vice, ma ancora nessun riscontro

    Ripubblicizzare il servizio rifiuti. Questo è lo scopo dell’incontro promosso dal Forum Ferrara Partecipata e da Rete Giustizia Climatica Ferrara che si terrà giovedì 27 marzo alle ore 17.30 presso la Factory Grisù. Dopo il flash mob dello scorso febbraio, il forum e gli attivisti per il clima tornano a ribadire la possibilità per Ferrara di sganciarsi dall’azienda Hera per la gestione degli scarti domestici e lo fa dando fiducia ai cittadini: “Un po’ come il flash mob – ha dichiarato Marino Pedroni del forum – rimettiamo in campo la presenza dei corpi. Sosteniamo la presenza delle persone contro l’omogeneizzazione dietro gli schermi”.

    Un’occasione, quella di giovedì, per ascoltare esperti del settore, attraverso gli interventi di Natale Belosi del comitato scientifico rete rifiuti zero Emilia-Romagna e di Andrea Bertozzi, responsabile dell’area tecnica di Alea. Un’azienda, quest’ultima, interamente pubblica e operante dal 2017 nella provincia di Forlì per la gestione dei rifiuti e guardata con ammirazione dai sostenitori dell’iniziativa “liberiamo Ferrara da Hera”.

    “Nel convegno vogliamo approfondire le scelte che producono risultati migliori dal punto di vista ambientale e sociale nella politica dei rifiuti” ha dichiarato Corrado Oddi del Forum Ferrara Partecipata, sostenendo le necessità di ridurre la produzione di rifiuti, minimizzare gli scarti che non vengono riciclati e guardare all’andamento tariffario, di come cioè il servizio incide sui redditi dei cittadini.

    “Uno studio fatto come Rete Giustizia Climatica ci dice che questi risultati migliori si ottengono quando si ha una tariffa puntuale, una modalità di raccolta porta a porta e una gestione pubblica”, ha sottolineato Oddi, che ha poi lanciato un appello all’Amministrazione comunale: “Hera lavora in proroga dal 2017. Il vicesindaco Balboni diceva che bisognava decidere entro fine marzo ma non abbiamo visto ancora nulla”.

    “L’amministrazione – ha proseguito Oddi – e il vicesindaco sostengono che costerebbe troppo ripubblicizzare, ma rispetto all’investimento iniziale, che oscilla tra i 4 milioni e mezzo e i 5 milioni, queste risorse sono assolutamente credibili rispetto alla situazione del Comune”. Le soluzioni per risolvere la questione dei costi elevati, secondo Oddi, sarebbero due: “Usare le riserve di utili di Ferrara Tua o vendere le azioni di Hera possedute dal Comune, che assommano al valore stimato di circa 20 milioni di euro”. Secondo Oddi, infatti, la questione sarebbe politica, perché “le risorse ci sono”.

    A questo proposito e per sollecitare un dibattito con l’Amministrazione, Oddi ha dichiarato di aver corrisposto un invito per l’incontro di giovedì anche al sindaco Alan Fabbri e al vicesindaco Alessandro Balboni, invito di cui “non abbiamo avuto riscontri fino ad oggi”.

    “In particolare – ha concluso Oddi – vorremmo sapere cosa pensano le forze politiche: La Comune di Ferrara e il Movimento 5 Stelle sostengono la nostra proposta, mentre non abbiamo capito bene come si colloca il Pd e abbiamo sentito a più riprese l’Amministrazione dire che il loro orientamento è da gara, cioè sostanzialmente che bisogna darlo a Hera”.

    Giuliana Andreati, de La Comune di Ferrara, ha ribadito infine il proprio sostegno alla proposta di ripubblicizzare il servizio dei rifiuti: “La Comune sostiene questa azione che fa parte dei punti del programma con cui si è presentata alla competizione amministrativa dello scorso maggio-giugno. C’è un’attenzione particolare alle persone, alla città e all’ambiente, che vuol dire la salute dei cittadini, i quali devono essere consapevoli di quanto una gestione e una visione diversa sul trattamento dei rifiuti va a salvaguardare loro stessi”.

    Si può fare: liberiamo Ferrara da Hera!

    La campagna entra nel vivo. Davanti all’ufficio Hera di viale Cavour un folto gruppo manifesta pacificamente, armato di lettere giganti, di buone intenzioni e molte ragioni.

    Ma quanto costa riportare il servizio in mano pubblica?
    🤥 Ci dicono che ripubblicizzare il servizio dei rifiuti urbani a Ferrara costa troppo.
    Non è vero! È un buon investimento per il futuro.
    Se prendiamo come riferimento lo studio realizzato dall’Università di Ferrara sulla gestione dei rifiuti, si evidenzia che il “costo” per costruire un’azienda interamente pubblica per gestire il servizio dei rifiuti urbani oscilla tra i 4,5 e 5,2 milioni di Euro.

    🤑 Risorse che sono più che reperibili tramite due possibili strade:
    👉🏼l’utilizzo di parte delle riserve di utili di Ferrara Tua, azienda interamente partecipata dal Comune di Ferrara, che ammontano nel 2023 a più di 17 milioni di €, di cui circa 8 disponibili.
    👉🏼Oppure attraverso la vendita di parte delle azioni di Hera possedute dal Comune di Ferrara e di cui lo stesso può liberamente disporre, che arrivano ad un valore superiore ai 20 milioni di €.

    💁🏻‍♀ Insomma, se si ha la volontà politica, si possono tranquillamente trovare le risorse per un investimento, non un costo, volto a ripubblicizzare il servizio, che può portare benefici importanti per i cittadini.

    Quale futuro per Ferrara?. Esperti e cittadini in dialogo. Al via una serie di incontri

    Prenderà il via martedì, per il terzo anno consecutivo, il ciclo di incontri pubblici organizzati dipartimento di architettura di Unife, laboratorio di progettazione urbana e territoriale Citerlab e didattico Lsfd, insieme al Forum Ferrara Partecipata rivolti alla cittadinanza dal titolo ’Ferrara e le altre, incontri sulle città e i loro problemi’ che rientrano nel progetto di public engagement ’Abitare l’inclusione. Diritti e spazi urbani oltre il conflitto’, di cui è responsabile scientifico il professor Gianluca Forgione del dipartimento di studi umanistici di Unife. Tre pomeriggi per approfondire tematiche relative alla qualità del vivere e abitare la città, preliminari all’elaborazione di idee, proposte e visioni per la Ferrara futura stimolando il confronto con altre città.

    “Crediamo che i cittadini debbano essere informati e formati sulle scelte legate al cambiamento della città stessa”, ha esordito Francesca Cigala Fulgosi di Forum Ferrara Partecipata, aggiungendo che “proprio i cambiamenti che ci aspettano saranno possibili se i cittadini potranno dire la loro, immaginandoci una città più verde, senza automobili, con abitazioni accessibili a tutti, spazi di relazioni sociali, minor inquinamento e con un trasporto pubblico efficiente”.

    Il primo incontro dal titolo “Temi della città, forme della mobilità urbana” si svolgerà martedì 11 marzo, dalla 17 alle 19, nell’aula A2 del dipartimento di architettura con Laura Calafà, giurista dell’università di Verona ed Elena Dorato, architetto-urbanista di Unife, introdotte dal professore di progettazione urbanistica del dipartimento di architettura di Unife e coordinatore del Lsfd Romeo Farinella con Francesca Cigala Fulgosi.

    “Gli incontri sono rivolti non solo ai cittadini, ai docenti, ma anche agli studenti che faranno la tesi di laurea su Ferrara per la progettazione urbana – conclude Farinella – affrontando temi legati ai tempi della città come la mobilità urbana, il potenziamento della metropolitana urbana per collegare Ferrara alle altre città della regione, la politica di genere, un piano verde per ripensare Ferrara come una città-parco fino ai temi legati all’energia”. Seguiranno il 15 aprile “Il piano del verde per una città parco. Esperienze” con la partecipazione di Anna Lambertini, architetto del paesaggio dell’università di Firenze e Alessandra Marin, architetto-urbanista di Unife e il 6 maggio “Città, energia e comunità” con il sociologo dell’ambiente dell’università di Torino Dario Padovan.

    “Ferrara e le altre”: un ciclo di incontri per ripensare la città

    Al via dall’11 marzo tre appuntamenti per stimolare una cittadinanza attiva per le trasformazioni della città futura. L’iniziativa continua la collaborazione tra il Forum Ferrara Partecipata e il dipartimento di architettura di Unife

    Un ciclo di incontri per ripensare i tempi, la mobilità, il verde e le fonti d’energia della nostra città. Questo è lo scopo di “Ferrara e le altre, incontri sulle città e i loro problemi”, progetto organizzato dal dipartimento di architettura dell’università di Ferrara e da Forum Ferrara Partecipata per approfondire le tematiche relative alla qualità del vivere e abitare la città estense, stimolando il confronto con altre realtà urbane.

    Queste tematiche, secondo Francesca Cigala del Forum Ferrara Partecipata, devono essere affrontate da chi vive la città affinché si possa “stimolare la cittadinanza attiva”, in vista delle “profonde trasformazioni future” che investiranno le nostre città.

    “I cittadini non solo devono essere consultati – ha sottolineato Cigala – ma avere anche voce in capitolo nelle trasformazioni che ci attendono, partecipando alle scelte di cambiamento. La crisi sociale, economica, climatica ed ecologica renderà indispensabili profonde trasformazioni in futuro e questi cambiamenti saranno così radicali che soltanto se i cittadini sono collaborativi e partecipano alle scelte potremo avere delle trasformazioni nelle città”.

    L’iniziativa continua la collaborazione, nata nel 2023 con una serie di cinque seminari, tra il Forum e il laboratorio didattico e di ricerca del dipartimento di architettura di Unife, diretto dal professor Romeo Farinella, che ha evidenziato un elemento di novità rispetto agli incontri precedenti: “Questo ciclo di incontri fa parte di una serie di iniziative che coinvolgono e danno sostanza ad un progetto di public engagement dell’università di Ferrara, che si chiama ‘Abitare l’inclusione. Diritti e spazi urbani oltre il conflitto’ che coinvolge diversi dipartimenti e di cui il responsabile scientifico è il professor Gianluca Forgione del dipartimento di Studi umanistici”.

    “Questo è un primo ciclo di iniziative che avviano questo progetto che durerà un anno” ha spiegato Farinella, che ha poi illustrato il motivo del titolo ‘Ferrara e le altre’: “Ferrara non è un mondo isolato, è una città che si trova insieme ad altre città e deve gestire delle dinamiche di trasformazione importanti”.

    Tre saranno le tematiche affrontate negli incontri: si partirà martedì 11 marzo con ‘Tempi della città, forme della mobilità urbana’, in cui si parlerà degli elementi di discriminazione che si possono riscontrare nel modo di spostarsi in città e del rapporto tra mobilità pubblica o privata. Oltre a riflettere sulle modalità con cui le città del futuro dovranno ripensare gli spostamenti in automobile a favore del trasporto pubblico, interverrà il gruppo di lavoro ‘Ferrara, le donne e la città’, diretto da Paola Gatti, per discutere della “visione delle donne sulla città”: “Grazie alle esperienze e agli approfondimenti che abbiamo vissuto all’interno del gruppo – ha spiegato Gatti – , ci siamo resi conto che la città, dal punto di vista urbanistico, non è stata ideata per soddisfare in modo equo le esigenze di tutti i cittadini, ma è stata costruita da un punto di vista maschile”.

    “Con l’emancipazione – ha proseguito Gatti –, le donne hanno cominciato a lavorare all’esterno delle case, però non è cambiato il lavoro di cura che è rimasto sulle spalle delle donne, almeno in Italia, nella stragrande maggioranza dei casi. Questo significa un secondo lavoro, tra l’altro non riconosciuto e non retribuito, che comporta un modo di muoversi all’interno della città diverso da quello rettilineo casa-lavoro dell’uomo”.

    “La donna – ha concluso Gatti – alla mattina va al lavoro, si ferma a portare a scuola i bambini, va a fare la spesa, va a vedere la mamma che non sta bene, torna a casa a fare i suoi lavori: insomma ha molte esigenze diverse, quindi un percorso quasi mai dritto, ma fatto di tante tappe e spostamenti”.

    Il ciclo proseguirà poi martedì 15 aprile con ‘Il piano del verde per una città parco’, in cui si tratterà del tema del piano del verde, tanto fondamentale quanto assente nella nostra città, e martedì 6 maggio con ‘Città, energia, comunità’, in cui si affronterà la tematica dell’accesso democratico all’energia e delle comunità energetiche.

    Tutti gli incontri si svolgeranno presso il dipartimento di architettura con orario dalle 17 alle 19, il primo nell’aula A2 di via Quartieri 8 e gli ultimi due presso palazzo Tassoni in via Ghiara 36.

    Partecipazione senza potere. Bologna e l’illusione di contare

    Negli ultimi tempi, le amministrazioni del capoluogo emiliano hanno spesso messo al centro del proprio agire politico il concetto di “partecipazione”. Ma si tratta di processi reali o è solo retorica?

    Un osservatore straniero interessato a studiare la città di Bologna rimarrebbe colpito dall’enfasi posta dagli amministratori locali sul tema della partecipazione. Ma se andasse al fondo della questione, se grattasse sotto la superficie, si renderebbe conto ben presto dello scarto tra la narrazione e la realtà. Il caso di Bologna offre molte chiavi di lettura per decodificare il rapporto tra le pratiche di partecipazione riservate ai cittadini e la costruzione del sistema di governo.

    I cordoni della borsa

    L’ultimo arrivato nella grande famiglia della partecipazione alla bolognese è il bilancio partecipativo, avviato nell’estate 2017 dopo anni di promesse (era un punto già presente nella campagna elettorale di Sergio Cofferati, sindaco della città dal 2004 al 2009).

    Bisogna innanzitutto ricordare che il bilancio municipale partecipativo ha le sue radici a Porto Alegre, la capitale dello stato del Rio Grande do Sul in Brasile, dove il Fronte popolare guidato dal Partido dos Trabalhadores vinse le elezioni amministrative nel 1988. Il processo avviato subito dopo dal nuovo governo locale era basato su un sistema di assemblee popolari di quartiere chiamate a decidere i principali campi di azione da finanziare e a eleggere i propri delegati ai forum distrettuali e al Consiglio del bilancio partecipativo, l’organo incaricato di elaborare la proposta finale di bilancio. Successivamente questa idea si è diffusa in alcuni paesi in America Latina e in Europa.

    È naturale che le pratiche sociali vengano declinate in modi differenti a seconda dei contesti in cui vengono esportate. Bisogna però domandarsi se le esperienze derivate dall’idea originaria ne conservino i tratti fondamentali oppure ne tradiscano lo spirito e ne utilizzino il nome in modo arbitrario o strumentale.

    Per una comparazione con il caso bolognese, possiamo isolare quattro aspetti cruciali dell’esperienza brasiliana: i cittadini potevano modificare le regole del processo partecipativo; la finalità era stabilita in modo netto (“Il bilancio partecipativo è una forma pubblica di gestione del potere”); le proposte provenienti dai quartieri venivano inserite nel quadro dell’amministrazione complessiva della città; veniva messa a disposizione una porzione significativa delle finanze municipali (inizialmente il 10% del bilancio, poi la quota è salita al 25%).

    La combinazione tra questi elementi rende il bilancio partecipativo un processo dagli esiti tangibili e produce effetti che vanno al di là del bilancio stesso, poiché lo trasforma in un percorso “pedagogico” lungo il quale le comunità locali hanno la possibilità di autoformarsi e prendere parte in modo consapevole al governo della città intera.

    Nulla di tutto questo è rintracciabile nel bilancio partecipativo bolognese. Le regole, innanzitutto, sono stabilite dall’amministrazione comunale e non possono essere messe in discussione. Le finalità sono espresse in termini estremamente generici e non stabiliscono alcun trasferimento reale di potere ai cittadini. La partecipazione è confinata all’interno dei singoli quartieri, senza coordinamento tra di loro, e questa segmentazione impedisce ai cittadini una visione globale dei problemi della città.

    Inoltre – e si tratta di un aspetto decisivo – la somma stanziata per il processo partecipativo è solo simbolica: attualmente si tratta di due milioni di euro, pari allo 0,20% del bilancio comunale, poco più di 300.000 euro per ciascuno dei quartieri in cui è suddivisa la città, il più piccolo dei quali conta 60.000 abitanti.

    Infine, la modalità scelta per la selezione finale dei progetti (una votazione on-line, decisa ben prima della pandemia) rappresenta un modello partecipativo virtuale che sta all’opposto del coinvolgimento diretto e della responsabilizzazione, mentre la “campagna elettorale” in cui ciascuno deve impegnarsi per far prevalere il proprio progetto sugli altri, entusiasticamente sostenuta dall’amministrazione comunale, sta all’opposto della cooperazione – ciò che di positivo un processo partecipativo dovrebbe innescare – ed è ricalcata su modelli politici tradizionali, gli unici possibili per un ceto politico privo di immaginazione.

    Tecniche e riti

    Il bilancio partecipativo è – dunque – un bello slogan ma nella realtà i cittadini non possono incidere – se non in misura simbolica – sul bilancio comunale. Non si tratta, però, dell’unico percorso partecipativo depotenziato. Gli esempi più rilevanti di azioni condotte in modo da rendere inefficace il punto di vista dei cittadini vanno rintracciati nel campo dell’urbanistica. Di grande rilevanza ciò che è accaduto nell’autunno del 2016, quando si è svolto il confronto pubblico relativo al “passante di mezzo”, progetto che prevede l’ampliamento della tangenziale e dell’autostrada che corre al suo interno. Il risultato sarà una strada a sedici corsie che incrementerà il traffico e l’inquinamento.

    (commons.wikimedia.org) 

    L’amministrazione comunale aveva bisogno di ammorbidire l’opposizione dei comitati di cittadini che si erano rapidamente costituiti e, con il supporto di esperti, volevano sapere come mai un progetto che tempo prima era stato bocciato perché ritenuto estremamente nocivo per la salute della popolazione fosse diventato improvvisamente “sostenibile”. Per provare a disinnescare il dissenso, viene organizzato un confronto pubblico addomesticato attraverso una serie di decisioni preliminari e di tecniche di conduzione. Innanzitutto, viene chiarito che l’opera si farà e che lo scopo del confronto non è quello di metterla in discussione, ma di invitare i partecipanti a suggerire miglioramenti per ottenere effetti di mitigazione dell’impatto ambientale.

    La partecipazione viene in tal modo privata della sua principale ragione d’essere: rendere i cittadini protagonisti di una scelta. Ma questo non basta ancora. Vengono rigorosamente limitati il tempo a disposizione (non più di due mesi) e la possibilità di approfondimento (il numero di incontri è estremamente limitato). Infine, la conduzione del confronto viene affidata a “facilitatori” che avrebbero dovuto garantire l’imparzialità del processo e aiutare i cittadini a formulare proposte e che nella pratica si sono adoperati per incanalare le obiezioni in una direzione compatibile con le esigenze dell’attuatore del progetto (Autostrade per l’Italia).

    Un confronto-farsa, quindi, che utilizza in modo ancora più stringente due elementi che già da tempo erano entrati a far parte del sistema partecipativo bolognese: la definizione di un perimetro ristretto entro il quale i cittadini possono esprimere la loro opinione, senza alcuna possibilità di introdurre temi e metodi di discussione in modo autonomo, e l’affidamento a un ceto specializzato deputato a condurre per mano cittadini considerati inesperti e bisognosi di essere istruiti in modo paternalistico.

    I “facilitatori del consenso” incarnano la de-politicizzazione dei processi partecipativi, l’arretramento delle istituzioni rispetto alla “tecnica” (che – separata dalla politica – si traduce facilmente in manipolazione) e la conseguente abdicazione delle istituzioni al proprio ruolo, che implica la capacità di ascoltare, interpretare e comporre in un’azione di governo i bisogni, le conoscenze, le proteste e il dissenso di tutti i cittadini, riconoscendo loro una capacità autonoma di autorappresentarsi senza mediazioni artificiali.

    Il confronto sul “passante” rappresenta l’involuzione della stagione dei laboratori di urbanistica partecipata inaugurata circa quindici anni prima, ma – a ben guardare – questo esito era già scritto proprio in quelle esperienze, e in particolare nel percorso partecipativo messo in piedi nel 2005, al tempo della giunta Cofferati, per correggere un pesante intervento edilizio voluto dalla precedente giunta di centro-destra nell’area dell’ex mercato ortofrutticolo, nel quartiere Bolognina.

    (commons.wikimedia.org) 

    Quel percorso nasceva con presupposti diversi rispetto agli interventi attuali, soprattutto perché intercettava mobilitazioni nate spontaneamente nel quartiere. Ma anche in quel caso venne posto un limite invalicabile: la cubatura complessiva prevista inizialmente doveva comunque essere assicurata. Non si trattava solo di un limite tecnico, ma dell’accettazione del paradigma della crescita economica basata sull’espansione edilizia. I meccanismi partecipativi produssero esiti positivi per quanto riguarda la ricucitura dell’insediamento rispetto al tessuto urbanistico e la dotazione di verde pubblico, ma al tempo stesso occultarono il nocciolo della questione, la vera posta in gioco.

    Già in quella fase si può leggere in controluce la separazione dei processi partecipativi da quelli decisionali, una separazione che annullò rapidamente i risultati ottenuti, spazzati via dalla crisi. Per lungo tempo gli scheletri dei palazzi incompiuti circondati da collinette di detriti e da opere di urbanizzazione lasciate in sospeso hanno rappresentato un monumento al fallimento di un modello di sviluppo che l’amministrazione comunale continua ostinatamente a perseguire ovunque in città.

    Libertà vigilata

    La separazione tra partecipazione e decisione è testimoniata anche dai patti di collaborazione, ideati per dare ai cittadini la possibilità di intervenire nella cura e nella rigenerazione di beni e spazi comuni. Per comprenderne la funzione, è utile mettere a confronto i principi basilari di questo strumento di partecipazione con alcune decisioni dell’amministrazione comunale che le contraddicono.

    Il regolamento che disciplina i patti stabilisce che «Al fine di ottimizzare o di integrare l’offerta di servizi pubblici o di offrire risposta alla emersione di nuovi bisogni sociali, il Comune favorisce il coinvolgimento diretto dell’utente finale di un servizio nel suo processo di progettazione, infrastrutturazione ed erogazione». Proviamo a leggere questo passaggio alla luce di quanto accaduto in un campo dei servizi pubblici particolarmente importante in  città, quello delle biblioteche. Alla fine del 2016, senza darne alcuna pubblicità, il Comune avvia l’esternalizzazione della biblioteca di quartiere “Lame-Malservisi”, cedendo interamente la gestione a una cooperativa.

    Di fronte alle proteste dei cittadini, l’amministrazione comunale oppone argomenti mutevoli e contraddittori, senza cedere di un millimetro rispetto alla scelta di una sostanziale privatizzazione e promettendo (naturalmente) un percorso partecipativo, purché – secondo un copione ormai ben noto – non mettesse in discussione la decisione. Ecco quindi che l’obiettivo di coinvolgere «l’utente finale di un servizio nel suo processo di progettazione» perde ogni connotato potenzialmente positivo e viene sterilizzato all’interno di un processo nel quale la “progettazione” altro non è se non la cogestione di scelte già prese.

    Il fatto che la partecipazione amministrata dall’alto, incoraggiata da dispositivi istituzionali, venga utilizzata per osteggiare la partecipazione praticata in modo autonomo è ancora più evidente nel capitolo dedicato agli spazi: «Il patto di collaborazione può avere a oggetto la gestione condivisa di uno spazio pubblico. I cittadini attivi si prendono cura dello spazio, per un periodo predefinito, per realizzarvi tutti gli interventi e le attività indicate nel patto». Ciò presuppone che gli spazi pubblici siano realmente messi a disposizione della cittadinanza. Ma la storia recente racconta tutt’altro.

    Nell’ottobre 2015 la polizia – su richiesta del Comune – sgombera il collettivo Atlantide dai locali di proprietà comunale di Porta Santo Stefano, concessi sedici anni prima. Nel luglio 2017 è la volta dello storico circolo Arci Guernelli, sgomberato dalla polizia senza alcun preavviso in occasione degli interventi di ristrutturazione dei palazzi di edilizia popolare gestiti dall’Acer nei quali ha sede. (Occorrerà quasi un anno per rientrare in possesso dei locali arbitrariamente sottratti). Nell’agosto dello stesso anno viene sgomberata con la forza l’ex Caserma Masini da tempo abbandonata, occupata cinque anni prima dal collettivo Làbas e diventata un punto di riferimento per il quartiere anche per la presenza di uno dei mercati contadini di “Campi aperti”.

    Al suo posto, secondo le previsioni del Piano operativo comunale (Poc), sorgeranno abitazioni e un albergo di lusso (ma a quattro anni di distanza lo spazio è ancora vuoto). Nell’agosto 2019 il Comune fa sgomberare dalla polizia, con tanto di ruspa al seguito e plauso del Ministro dell’Interno Salvini, l’XM24, spazio autogestito presso i locali di proprietà comunale dell’ex mercato ortofrutticolo, il cui uso era stato concesso nel 2002. Il copione è replicato nel gennaio 2020, quando viene sgomberata l’ex Caserma Sani occupata due mesi prima dagli attivisti dell’XM24 rimasti senza spazio. In quel luogo abbandonato da anni verranno costruiti nuovi palazzi, sacrificando anche gran parte del parco.

    (Max Cavallari)

    La politica intorno agli spazi pubblici si muove tra la repressione delle forme di autogestione (comprese quelle originariamente autorizzate dalla stessa amministrazione comunale) e la privatizzazione. Nessuna forma di partecipazione era stata prevista per decidere la destinazione dell’immensa area verde denominata Prati di Caprara, dove il Comune aveva l’intenzione di realizzare 1.300 appartamenti e un outlet della moda. Sono stati i cittadini raccolti nel Comitato Rigenerazione No Speculazione a dare battaglia, ad organizzare un percorso partecipativo autogestito ed a scongiurare (si spera in modo definitivo) la distruzione del bosco urbano.

    E non esiste alcun piano di coinvolgimento dei cittadini intorno al riuso delle decine di spazi ed edifici di proprietà pubblica (tra cui grandi aree militari) abbandonati da decenni e destinati ad alimentare gli appetiti delle imprese di costruzione.

    Tutto questo mette in luce quale sia, nella realtà, il rapporto tra i patti di collaborazione e la gestione degli spazi pubblici. In sostanza, ai cittadini è concesso di esercitare la propria azione solo su spazi piccoli e interstiziali, mentre sui grandi spazi – la cui trasformazione cambierà in modo radicale il volto della città alterandone la struttura urbanistica e sociale – non hanno diritto di parola. È questo che emerge con chiarezza sfogliando l’elenco dei patti siglati con l’amministrazione comunale.

    Ed emerge anche la mancanza di un tessuto connettivo tra i progetti; come nel caso del bilancio partecipativo, i cittadini sono sollecitati a prendersi cura esclusivamente di aspetti che hanno rilevanza in un contesto ristretto. In questo modo, le pratiche su scala micro-locale non mettono i loro attori nelle condizioni di leggere le problematiche della città e generare un allargamento di prospettiva. La combinazione tra queste due limitazioni rende i patti di collaborazione una semplice amministrazione dell’esistente. In qualche caso potranno produrre esiti originali, ma nel complesso verranno sterilizzati da un’ideologia della partecipazione che, mentre predica l’iniziativa autonoma e l’immaginazione, amministra l’omologazione e il controllo.

    Ieri e oggi

    Questa struttura della partecipazione rappresenta una frattura rispetto alla tradizione amministrativa della città, una frattura che ha origini lontane. Bisogna risalire agli anni Sessanta per rintracciare un modello radicalmente diverso. Nel 1963 vennero istituiti i quartieri, prima esperienza di decentramento amministrativo in Italia. Il dibattito che precedette e poi accompagnò la prima fase di sperimentazione – al quale parteciparono attivamente comunisti, socialisti e cattolici di area dossettiana – era incentrato sul ruolo che le nuove istituzioni avrebbero dovuto svolgere per responsabilizzare i cittadini, nella convinzione – da tutti condivisa – che questo non sarebbe accaduto senza una ristrutturazione dei processi decisionali.

    Il decentramento, in sostanza, doveva tradursi non solo nella dislocazione territoriale dei servizi, ma anche – e soprattutto – in un vero e proprio trasferimento di poteri. I nuovi quartieri – secondo l’opinione del primo assessore al decentramento, il socialista ed ex azionista Pietro Crocioni – dovevano diventare gli organi del dissenso, perché solo l’esercizio diffuso del dissenso in tutte le articolazioni della città avrebbe garantito un rapporto fecondo, non gerarchico e non paternalista, con gli organi centrali dell’amministrazione comunale.

    Quel processo si intrecciò con la nascita delle forme di gestione sociale delle scuole, di cui furono protagonisti l’assessore all’istruzione Ettore Tarozzi e Bruno Ciari, maestro elementare, tra i fondatori del Movimento di cooperazione educativa, chiamato a dirigere i servizi scolastici nel 1966. Nel suo breve periodo bolognese (interrotto dalla morte prematura nel 1970), Ciari avviò la scuola a tempo pieno, luogo in cui venne sperimentato l’intreccio tra il progetto pedagogico e la partecipazione dei cittadini al governo della scuola. Furono gli anni dei Comitati genitori-insegnanti, la cui azione era costruita intorno al concetto di autogestione.

    Non è solo una coincidenza temporale il fatto che, nello stesso periodo, fermenti analoghi attraversassero il dibattito intorno al tema della salute. Il contributo principale venne da Giulio Maccacaro, uno dei fondatori del movimento “Medicina democratica”, che nel 1972 tracciò le linee guida per l’organizzazione delle unità sanitarie locali (che avrebbero costituito il nucleo del servizio sanitario nazionale istituito con la riforma del 1978) evidenziando la stretta connessione tra partecipazione e salute.

    La partecipazione – sosteneva – deve essere il fondamento del diritto di cittadinanza, non l’indicatore di un generico democraticismo. Ma questo diritto “non può essere conferito che dai partecipanti stessi, perché la partecipazione nasce proprio in quel momento – che può durare un’epoca – in cui una comunità oggettiva diventa comunità soggettiva”. Al centro, ancora una volta, sono i temi dell’autogestione, dell’autogoverno e dell’articolazione dei rapporti tra i cittadini – singoli e associati – e le istituzioni.

    Maccacaro, inoltre, affrontò una questione cruciale, ovvero il pericolo del predominio della tecnica, di fronte alla quale i cittadini – non informati o non “competenti” – dovrebbero cedere il passo a un ceto specialistico che si autorappresenta come unico soggetto legittimato a decidere nel modo “giusto”.

    È un argomento che ritroviamo in varie forme in tutti i processi partecipativi, e in particolare in quelli riguardanti le grandi opere pubbliche. «Il potere sovrastante si vale sempre di questa appropriazione” – scriveva Maccacaro – “e tende, pertanto, a enfatizzare le necessità tecnologiche di quella delega: il potere di base deve riaffermare il primato delle sue necessità politiche e chiedere una tecnologia alternativa».

    Il movimento No Tav della Val di Susa è un buon esempio di attuazione di questo principio. Quel movimento, infatti, è nato e si è sviluppato sulla base di una “pedagogia dal basso”: i cittadini hanno formato se stessi, hanno studiato e sviluppato un sapere tecnico in grado di competere con quello ufficiale, hanno rivendicato – esattamente come auspicava Maccacaro – la priorità delle necessità politiche di un’intera comunità rispetto alle necessità “tecnologiche”.

    (Riccardo Carraro)

    È un’esperienza importante, perché mostra possibilità di intervento in un contesto storico profondamente mutato. Il patrimonio formato intorno al tema della partecipazione tra gli anni sessanta e la metà degli anni settanta – infatti – è andato disperso. Le ragioni, evidentemente, non sono esclusivamente locali. Quel periodo era segnato in tutto il paese da un grado elevato di conflittualità sociale e dall’azione di movimenti di massa. La composizione sociale del paese e il clima politico sono, oggi, completamente differenti, e radicalmente diversa è la cultura politica del partito che ha raccolto l’eredità della principale organizzazione della sinistra italiana.

    È una cultura che nega il conflitto, senza comprendere che si tratta di una componente ineliminabile delle dinamiche sociali e che la sua assenza può corrodere la coesione sociale. La partecipazione si nutre del conflitto, gli strumenti della partecipazione istituzionalizzata descritti nei paragrafi precedenti si basano – al contrario – sulla sua rimozione.

    Centralizzare e istituzionalizzare

    La mutazione del modello partecipativo bolognese ha inizio molto tempo fa. I fatti del ‘77 hanno sicuramente determinato una cesura – non ancora adeguatamente studiata – anche su questo terreno. L’incapacità degli amministratori locali dell’epoca di comprendere le forme nuove di partecipazione alla politica che premevano alle porte delle istituzioni ha contribuito alla chiusura a riccio verso il concetto di autogestione, parola scomparsa dal vocabolario di chi si è avvicendato al governo della città negli ultimi quarant’anni.

    A partire dagli anni Ottanta, questa mutazione si è strutturata intorno a tre assi principali. Il primo è la centralizzazione. Il sistema dei quartieri è stato completamente smantellato da due riforme – nel 1985 e nel 2015 – che ne hanno progressivamente ridotto il numero (nel 1966 erano diciotto, oggi sono sei) e mutato le funzioni, fino a ridurli a semplici organi consultivi privi di poteri di indirizzo e di gestione.

    Il secondo è l’eccesso di istituzionalizzazione, che prende forma attraverso una stratificazione di norme, procedure e regolamenti utili ad alimentare la retorica della partecipazione piuttosto che la sua pratica effettiva, come aveva evidenziato Achille Ardigò: «[…] quanto più sono cresciute, non solo a Bologna, le istituzionalizzazioni della partecipazione popolare, tanto meno si è affermata la partecipazione della gente».

    D’altra parte, i limiti di questo apparato istituzionale sono fissati in modo chiaro proprio dalle stesse norme che ne sono alle base. Basti pensare che la legge della Regione Emilia Romagna sulla partecipazione stabilisce che gli enti responsabili della decisione finale non hanno alcun obbligo di recepire le conclusioni dei procedimenti partecipativi, decretandone in tal modo l’inutilità.

    Il terzo asse è la negazione del dissenso, che si manifesta in forme molteplici. Una di esse sta nell’uso ambiguo del concetto di “legalità”, maschera dietro la quale il potere politico si nasconde per negare legittimità a modalità libere e autonome di organizzazione sociale senza assumere la responsabilità di questa esclusione. È su questo terreno che – come abbiamo visto – si è sviluppato un intreccio pericoloso tra Comune, Questura e Procura, che – oltre agli episodi ricordati – ha prodotto anche, nell’ottobre 2015, il violento sgombero della palazzina ex-Telecom, dove per circa un anno era stata condotta una esperienza di autogestione da parte di circa 200 immigrati che avevano ricavato piccoli appartamenti da uno stabile in disuso. Oggi quel luogo è stato trasformato in uno studentato di lusso. L’anomalia è stata normalizzata, con il beneplacito del Comune.

    La negazione del dissenso passa anche attraverso il disconoscimento delle forme di democrazia diretta previste dallo Statuto comunale. Nel 2013 il Comitato articolo 33 promosse un referendum contro il finanziamento del Comune alle scuole private. Nonostante uno schieramento politico e mediatico impressionante a favore del mantenimento, il 59% dei votanti si espresse per l’abolizione, ma l’esito è stato completamente ignorato dall’amministrazione comunale.

    (Revol Web da Flickr)

    Tutti questi aspetti vanno a comporre un quadro nel quale il significato originario della parola “partecipazione” è ormai smarrito.

    La cultura politica degli amministratori locali è ostile alle forme di autogestione, a tutto ciò che sfugge a una formalizzazione procedurale e istituzionale, ai movimenti spontanei e imprevisti.

    Il sistema della partecipazione è concepito soprattutto come una macchina per la produzione di consenso, ed è strutturato intorno a un complesso di dispositivi che in alcuni casi imbrigliano le idee, in altri legittimano scelte adottate al di fuori dei luoghi deputati alla rappresentanza democratica. Una partecipazione senza potere a sostegno di un potere senza partecipazione.

    di Mauro Boarelli

    pubblicato il 15 Giugno 2021