Luca Mazza mercoledì 9 ottobre 2024
L’idea del sociologo Alietti e dell’urbanista Farinella ha l’obiettivo di far contare di più i diritti degli abitanti e dei soggetti più vulnerabili in metropoli davvero inclusive

Un manifesto contro le città autoritarie dove la rendita conta più dei diritti

© 2019 Dmitry Rukhlenko

Una proposta che contiene anche una denuncia. Un’idea forte, diretta, rivoluzionaria: “Un manifesto contro la città autoritaria”. Partiamo dalla definizione. L’espressione – città autoritaria – si riferisce all’insieme di ideologie, discorsi, pratiche e politiche sulla città orientato a generare profitto e rendita, a ridurre i diritti alla città degli abitanti, a marginalizzare ed escludere i gruppi più vulnerabili. Insomma, parliamo di quel modello fondato sull’unico fine degli obiettivi economici, a discapito degli interessi dei cittadini, in particolare dei soggetti più fragili.

L’accusa a questi sistemi che rendono le città non inclusive e il contestuale appello per metropoli democratiche sono il frutto di due anni di riflessioni comuni tra il sociologo Alfredo Alietti e l’urbanista Romeo Farinella che nei rispettivi campi si occupano di politiche e strategie di rigenerazione urbana. Il lavoro sul “manifesto” nasce da seminari, collaborazioni, incontri, confronti anche con altri colleghi, italiani e internazionali, utilizzando anche piattaforme digitali come “Volere la luna” o “Agenda 17”, il web magazine dell’Università di Ferrara. E il lavoro è ancora in corso, nel senso che culminerà con la pubblicazione di volume ad hoc (dal titolo “Manifesto contro la città autoritaria”) in programma per il prossimo anno. La questione della crisi abitativa e dei nuovi progetti di edilizia sociale che mettono al centro giustizia sociale, ecologica e urbana contro politiche urbane autoritarie è stata affrontata proprio in questi giorni dai due docenti e altri esperti al Festival di Internazionale in corso a Ferrara.

La definizione di “città autoritaria” ha rappresentato il punto di partenza per individuare alcuni criteri che la identificano: «Tra questi principi ci sono i processi di gentrification e di eco-gentrification (ovvero la trasformazione di un’area urbana da popolare a quartiere di pregio), la militarizzazione e privatizzazione dello spazio pubblico, la segregazione socio-spaziale ed etnica, la riduzione della partecipazione dei cittadini alla vita delle comunità – spiega Alietti -. Questi elementi interagiscono tra loro e danno forma e sostanza a politiche che escludono e nel nome dell’ideologia neoliberista mettono in crisi gli assetti democratici e i diritti degli abitanti. Quindi la città autoritaria ridefinisce in negativo sia l’ordine spaziale assecondando la dimensione economica e della rendita, sia i contorni della stessa cittadinanza».

Quando gli aspetti meramente economici prevalgono fino a soccombere quelli della vivibilità e del civismo è chiaro che il sistema non può definirsi democratico né umano. «Il modello neoliberista promuove un prototipo di società iper-competitivo, in cui domina esclusivamente il valore di mercato quale parametro della vita sociale – conferma il sociologo -. Inoltre, le sue pratiche alimentano costantemente una logica per cui la politica, i corpi intermedi, ad esempio i sindacati, risultano dei fastidi da eliminare in nome della crescita economica. In tal senso l’autoritarismo promuove una società in cui l’umanità ha un prezzo e un costo che attraversa anche il terreno di acquisizione dei diritti sociali. Si impone una condivisa e accettata rappresentazione di questa egemonia come se fosse naturale, data per scontata, e non una costruzione socio-economica e frutto di una chiara volontà politica». Tale situazione, per certi versi una regressione ottocentesca della stagione del capitalismo selvaggio, secondo Alietti «produce una dinamica disumanizzante poiché priva le persone della loro capacità e delle loro competenze sociali, politiche e culturali». Un esempio di quanto questo modello sia nella sua sostanza disumano, secondo i sostenitori del “manifesto”, è dato dalle tante «vite di scarto che popolano le metropoli del mondo».

Il cambio di approccio deve partire da una nuova consapevolezza: «Nella definizione degli scenari urbani futuri emerge un atteggiamento neocolonialista che rende il fenomeno urbano occidentale punto di riferimento per tutti, ma in realtà inapplicabile in una gran parte del mondo, certamente in quello più povero – sostiene Romeo Farinella -. Il dibattito va disinquinato associando il tema del contrasto alle mutazioni climatiche con la lotta alle diseguaglianze, agendo sul “locale” per migliorare anche il “globale”. Le comunità locali devono essere consapevoli delle sfide che dobbiamo affrontare, ma devono avere le risorse per agire e questo può avvenire solo se entriamo nell’ordine di idee che è necessaria una redistribuzione planetaria della ricchezza prodotta avviando forme di multilateralismo globale e di cittadinanza attiva. Perlomeno nei Paesi dove ancora la democrazia seppur traballante è attiva».

In molti casi, inoltre, tali pratiche di mantenimento dello status quo urbano si camuffano dietro la confezione solo apparente della “sostenibilità”, termine che viene strumentalizzato per ben altri obiettivi da quelli ecologici e sociali. «Spesso i progetti presentati da gruppi finanziari e immobiliari o archistar evidenziano una rigenerazione urbana “ecologica” che diviene una forma inedita di gentrificazione che, senza dichiararlo, rafforza la “polarizzazione” sociale delle nostre città», afferma l’urbanista. Nei paesi autoritari la volontà di modificare una città o di costruirne una nuova dal nulla è una decisione non negoziabile, sostiene per esempio Farinella, come il caso di “New Cairo” (la città satellite egiziana creata in una zona deserta per alleggerire la crescita della capitale) e il progetto di “Neom Line”, la smart city saudita. «Nei paesi democratici la strategia è più subdola e si avvale di potenti apparati comunicativi che propugnano una retorica ed esclusiva idea di futuro green che non si misura con il tema delle disuguaglianze e del diritto alla città per tutti», nota l’urbanista. Due approcci differenti a seconda se il Paese è o non è democratico ma il risultato alla fine non cambia: la città resta “autoritaria”.