È un ritornello: lo abbiamo già visto. Appena qualcuno tenta una riforma della agricoltura di poco diversa dal solco del peggior consumismo, una fetta dell’agricoltura monta sui giganteschi trattori (comprati inutilmente e in parte con finanziamenti pubblici) e cerca di spaventare opinione pubblica e politica. Questa volta la prima non si sta per nulla spaventando e non sta offrendo solidarietà a prescindere, la seconda al solito ci casca.
Credo che gli agricoltori che protestano stiano clamorosamente sbagliando indirizzo: non devono prendersela con l’Unione europea che li finanzia da decenni né con gli Stati che pure li finanziano da decenni e pure quando ci sono calamità e stati di emergenza (non dimentichiamolo). Devono andare a protestare dalle loro associazioni di categoria che non li hanno aiutati quanto occorreva per farli transitare verso un’agricoltura più giusta, più sana, più pulita e verso quelli che si prendono l’80% dei contributi della Politica agricola comune (Pac) senza mai mettere piede in un campo. Se la devono prendere con chi impone loro agrofarmaci in abbondanza e sementi di un certo tipo per colture di un certo tipo (disastrose). Dopodichè è inutile che ci nascondiamo dietro un dito: l’agricoltura convenzionale o industriale, a seconda di come piace chiamarla, è solo e soltanto il prodotto di sacrifici ecologici immensi. Se non ci diciamo questo, non siamo onesti. E piacerebbe sentirlo da quelle facoltà di Agraria che ancora non riescono a scollarsi di dosso il mito della super produzione, costi quel che costi, mentre dovrebbero solo virare verso la sostenibilità a tutti i costi.
Dopodichè visto che i trattori alzano la voce, ricordiamo loro che la coscienza di un bel pezzo di agricoltura ha il colore dei fumi di scarico di quei mezzi. È infatti lunga la serie di fatti che non depongono certo a favore di un’agricoltura che si può autodefinire sostenibile né ecologica. L’eccesso di zootecnia (lo diciamo da tempo) è un problema. Innegabilmente un problema che genera un sacco di problemi all’ambiente e alle persone: eccesso di consumo idrico, monocolture a mais solo per produrre insilati, perdite energetiche in filiera, patologie sanitarie gravi per eccesso di consumo di carne, problemi enormi di spandimento dei liquami, problemi enormi per trattamento degli animali, etc.. A livello mondiale la superficie agricola dedicata alla zootecnia è oltre il 70% della superficie coltivata per produrre solo il 15-20% delle calorie alimentari. Non mi pare difficile commentare questo dato come uno sbilanciamento folle e insostenibile che è assurdo mantenere e che protegge un’industria della carne che si è eccessivamente ingrandita e che ha monopolizzato la dieta alimentare dei cittadini per fare profitto, non certo per migliorare la loro salute.
Veniamo a un altro tema, disastroso: lo sversamento di liquami nei terreni. Sappiamo perfettamente che il settore ha beneficiato di deroghe su deroghe in questi anni, il tutto per tenere in vita un’economia agricola eccessivamente sbilanciata. Sappiamo bene che sulla carta molte aziende agricole vantano superfici di spandimento sufficienti, ma che non utilizzano tutte, finendo per concentrare lo spandimento solo in alcune aree. È falso?
Sappiamo che le quantità di agrofarmaci utilizzati sono eccessive e mal dosate in molti casi. Sappiamo che molta manodopera è ancora mal pagata e sfruttata. Non ricordo le associazioni dell’agricoltura offrire seminari e incontri culturali ai loro iscritti per fargli conoscere le inchieste e i libri di Alessandro Leogrande sul caporalato (per fare un esempio a cui potremmo aggiungerne altri) o le inchieste di Stefano Liberti su temi paralleli. La strada da fare è molto lunga e queste proteste sul trattore non mi pare sollevino questi temi che sono nodali e urgenti, ma preferiscono tenere tutti sul filo del ricatto: “Senza di noi non c’è cibo”. Ma quale cibo?
Oggi il paradigma della quantità a tutti i costi non funziona. Occorre cambiare. È doloroso, mi rendo conto, ma mai come oggi è necessario che la protesta sia sinceramente ecologica e non protezionistica. Ad esempio, nessuno parla di sprechi alimentari. A che cosa serve avere una agricoltura che produce-produce-produce per buttare via un quarto di quello che vende? Certo, fa cassa per chi vende, ma dal punto di vista della sostenibilità è un dramma e pure da quello della equità. Sarebbe meglio produrre meno pur spendendo uguale ma dando più soldi al produttore. E il mondo agricolo e dell’economia alimentare potrebbe fare molto molto molto di più in tal senso.
Proseguiamo con l’elenco. L’agricoltura contribuisce alle emissioni climalteranti per una quota enorme. Non usa le acque in modo sostenibile né evita scarichi inquinanti nei fossi. C’è un problema di rifiuti: tremano le gambe quando si parla di gessi di defecazione. Poi, l’agricoltura convenzionale arriva a tagliare qualsiasi albero dia il minimo fastidio ai nuovi macchinari automatici. I trattori sono diventati pesantissimi sfondano argini (altro che le nutrie, per favore) e strade di campagna e locali. È enorme l’uso di acqua che va sprecato, tanto la si paga poco. E poi quando manca l’acqua, l’agricoltura alza la mano e la politica le concede i soldi dallo Stato invocando emergenze e calamità senza mai porsi i dubbi che tutto quel mais che richiede acqua nelle stagioni dove acqua non ce ne è mai stata, forse richiederebbe di ridurre la produzione di mais e non solo piangere la necessità di acqua a iosa.
Energia? Sappiamo che le associazioni dell’agricoltura sono arrivate tardi sulla partita della transizione energetica che sta rubando terre agli agricoltori (specie i più fragili) e dando redditi importanti ad altri agricoltori (sempre i più forti): forse l’associazionismo dell’agricoltura doveva aver capacità di prevenire tutto ciò, ma si è smarrita (che strano). Sappiamo perfettamente che le plastiche in campo sono diffuse in modo enorme (gli agricoltori sul trattore hanno letto i rapporti della Fao? Sanno che cosa stanno mangiando e facendo mangiare? Smaltiscono correttamente?) e non stanno facendo nulla per limitarle e fermarle. Sappiamo benissimo che tutte le azioni di miglioramento ambientale sono pregiudizialmente viste dalla maggioranza come una rottura di scatole, inutile, perfino dalle organizzazioni di settore. Mi chiedo di quanto sia cresciuta la sensibilità della base su un tema chiave come la biodiversità. Chi protesta che cosa sa? Che cosa fa? Che cosa sa degli impegni internazionali che dobbiamo e vogliamo rispettare? Sappiamo perfettamente che il cemento è un problema per l’agricoltura e sappiamo che l’urbanistica è famelica, ma sappiamo altrettanto bene che l’agricoltura industriale non ha mai fatto niente di concreto ed efficace per fermare l’emorragia dei suoli a causa del cemento perché con una mano si scandalizza, ma con l’altra lascia che le cose rimangano così perché gli agricoltori spesso sono contenti di vendere le terre e incassare: vedi quel che è successo con l’autostrada Brebemi (A35); vedi quel che succede con la logistica che va ad accaparrarsi terre facili; vedi quel che sta accadendo con i pannelli solari e le pale eoliche con le grandi aziende dell’energia che stanno spazzolando terre ben esposte senza trovare adeguata opposizione da parte dell’agricoltura e di chi dovrebbe difenderla. Sappiamo che nel 2012, quando eravamo a un passo dal portare in Parlamento una legge per la tutela dei suoli dal cemento, con l’allora ministro Mario Catania, furono le organizzazioni dell’agricoltura a essere fredde e a pretendere di non gettare vincoli sulla libera iniziativa di vendita delle terre da parte delle aziende agricole. E la proposta di legge naufragò.
Infine, sempre per non nascondersi dietro a un dito: molta agricoltura è ostaggio delle multinazionali sementiere, dell’agrofarmaco e del petrolio (che spesso coincidono) oltre che della distribuzione alimentare. Puntate i vostri trattori verso di loro. Puntateli anche verso chi, del settore, sta comprando sottocosto le aziende agricole in sofferenza anziché aiutare a risanarsi, e magari compra pure alcune catene di distribuzione alimentare così da fare filotto.
Ecco, non siamo ingenui. L’agricoltura industriale, lo ripeto, è un problema e non una soluzione. Men che meno oggi. Men che meno con lo schema di gioco di ieri. Quindi questa protesta somiglia più a qualcosa per garantirsi alcuni privilegi, per non mettersi in discussione, per dimostrare che non si è disposti ad alcun cambiamento, per favorire qualche parte politica che si avvantaggerà del solito serbatoio di voti del mondo agricolo. Non certo la miglior parte politica. La politica che ritira un provvedimento per limitare i pesticidi non è una politica utile per il futuro. Per nulla. Una politica che apre il borsellino del Piano nazionale di ripresa e resilienza ma non affronta la drammaticità ecologica e sociale di questa agricoltura industriale non è una buona politica perché non risolve i problemi strutturali e culturali di questo importante mondo.
Non mancano però pur piccoli elementi positivi nelle pieghe di questa protesta. Innanzitutto, vediamo non poche dissociazioni dentro il mondo della agricoltura. Aziende agricole che non sono scese in campo. Agricoltori che stanno dubitando ce ne sono. Ci sono ottime aziende, responsabili, che purtroppo non riescono a farsi sentire ma resistono e stanno cambiando rotta: a loro tutta la nostra solidarietà, sono queste le aziende che la Pac dovrebbe premiare, smettendo di premiarne altre. E poi vediamo che le persone non stanno empatizzando con quei trattori e questo è un elemento di forte novità, cari agricoltori convenzionali. I cittadini sono cresciuti e ci pensano due volte prima di venire con voi sui trattori. Pensateci. Non avete il dubbio di essere dentro una nebbia e che oggi la questione sia diversa?
Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “L’intelligenza del suolo” (Altreconomia, 2022)
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